Peter Gabriel, New Blood Tour per voce ed orchestra, Arena di Verona (location perfetta, nda), 26 settembre 2010, unica data italiana. Si arriva a Verona caricati da un'attesa infinita, che poi si prolunga di oltre un'ora rispetto all'orario ufficiale del concerto, tanto per alimentare l'adrenalinica sofferenza. Dopo un paio di canzoni piene di calde suggestioni nordiche della brava Ane Brun, si parte, finalmente: e Heroes, come nell'album, è una coraggiosissima dichiarazione di intenti per noi che entriamo in questo inesplorato universo sonoro: l'accesso non è agevole, lo spaesamento garantito, le forme delle canzoni conosciute nella nostra precedente vita di ascoltatori, quasi irriconoscibili. Ma lasciamo ogni speranza di uscirne indenni: una volta varcato l'ingresso, non torneremo più indietro, risucchiati emotivamente e fisicamente in quella dimensione differente, sotterranea ed elevata, altra. Peter, come in Scratch My Back, vive con noi questo confortevole disagio: inizia stravolgendo il brano più noto e definito, abbatte il sacro monumento bowiano con radicale delicatezza, con una voce sofficemente flebile che dissemina di crepe l'epicità dell'originale, ed il suo incresparsi nelle tonalità più alte, sostenuto dal brulicante lavorio degli archi, è il segno di un faticoso e meraviglioso smarrimento. The Boy In The Bubble è già una scossa di assestamento: l'inaudito incanto rallentato e trasognato di quello che era un inno terrigno, frenetico e vitalistico, ci fa tremare cullandoci. È sconvolgente, in senso letterale, la mutazione della canzone di Paul Simon, e i brividi che ne derivano sono, a un tempo, di inquietudine per l'intensità del sisma e di beatitudine davanti all'incantevole panorama scaturito, inaspettatamente, da quell'implosione fortissima. Ecco: l'Arcangelo, come e più di sempre, volteggiando con la rivoluzionaria classicità dell'orchestra, ci sta conducendo in un Altrove misterioso e familiare, alieno ed intimo allo stesso tempo. Mirrorball è puro, nitido, devastante romanticismo; Flume, un conturbato abbandono: altri brividi, di definitivo acclimatamento. C'è, in questo avvio di concerto, qualche incertezza nella voce, qualche esitazione negli acuti, qualche intermittenza nella potenza: Peter è influenzato, ripetevano le voci di platea e di gradinata. E l'indubbia difficoltà nell'interpretazione di Listening Wind, l'evidente fatica nel tener dietro all'incalzare ritmico dei violini, avvalorano la diceria. Ma solo in minuscola parte: il Nostro è in balia di un raffreddore reversibile (i sintomi spariranno progressivamente durante il concerto fino alla completa guarigione) e di un fulgore interpretativo irresistibile: sceglie, nel primo atto della rappresentazione, di mettere la voce nell'orchestra e non sull'orchestra. A volte si lascia sopraffare dalla spaventosa violenza sonora dei fiati, a volte combatte un drammatico corpo a corpo (voce a corde) con gli archi, ora è sommerso da stridori e dissonanze, ora ne emerge, a disegnare scintillanti melodie sopra arabescati tappeti armonici. Lavora di sottrazione, e facendolo somma pathos a pathos: in The Power Of The Heart sussurra divinamente, colorando ogni sillaba. Attenzione alle sfumature che calamita un ascolto intriso di attonita devozione: la platea è via via stupita, convinta, avvinta, gli applausi sempre più avvolgenti scandiscono un inesorabile rapimento. Con My Body Is A Cage, capolavoro assoluto, la resa è completa: siamo precipitati nel più gabrieliano degli abissi, e il naufragar ci è dolce, in questo incandescente magma sonoro che disegna, con pieni potentissimi e vuoti proditori qua e là echeggianti Stravinskij, l'atroce sofferenza di un'anima rinchiusa in un corpo-prigione. La scossa qui è profondissima: l'epicentro è nel cuore. Ci riporta in superficie il tenero acquerello di The Book Of Love, impreziosito da spiritose trovate grafiche (la musica del libro dell'amore raffigurata dai vecchi sodali di band in versione cartoon, l'edificante finale matrimoniale demolito dall'animazione di un irresistibile Gabriel-sposo che se la dà a gambe all'apparizione di un'orribile Gabriel-sposa). Già, la grafica, la confezione scenica, la trasposizione per immagini: ogni esecuzione trova la sua mirabile traduzione visuale, nulla è lasciato al caso ma molto all'evocazione, tra foto, disegni, forme astratte, didascalie elettroniche, rarefazioni e distorsioni di linee e figure che - su schermi, sipario e fondale - contrappuntano ogni nota. Un rigore (sin)estetico totale, che si può gustare ma non raccontare, lega le due parti dello spettacolo. La prima, intanto, scorre fluida e vibrante con una malinconicissima I Think It's Going To Rain Today, una strepitosa Après Moi ancora più goticamente inquietante della versione in studio, una Philadelphia commossa e struggente, fino alla controversa Street Spirit (Fade Out), per alcuni, nell'album, al limite dello sfiguramento dell'originale: qui risuona ancora più straziata e, per questo, più vitale, con un Gabriel vocalmente ristabilito che oramai ha preso ad osare minacciando molto di buono per il secondo atto. Cui conduce, magnifica sorpresa per tutti (fortunati fruitori del soundcheck a parte), una straordinaria Wallflower, il cui lirismo armonico, nobilitato da un arrangiamento calibrato, fa da ponte ideale fra i due capitoli di un unico, incredibile romanzo per voce ed orchestra, sotto la direzione energica e sorvegliata di Ben Foster. Nell'intervallo ci si guarda attorno e dentro: ovunque c'è ammirato stupore, probabilmente anche in Zucchero, avvistato (a prendere appunti mentali?) nelle prime file. Si riparte, finalmente, e San Jacinto è la migliore ripartenza possibile: l'iterazione ipnotica di xilofoni e marimbe regala una liquidità naturale ad un brano già impregnato, nel memorabile quarto album, di echi reichiani, mentre il commovente e solenne "I hold the line" è sorretto e tonificato da una stupefacente imponenza sinfonica. E se Digging In The Dirt si regge su una trama nevroticamente spezzata, in una fedele trasposizione orchestrale, con The Drop si compie - all'opposto - un fecondissimo tradimento: quello che era un esile frammento di Up si trasforma in una composizione densa e strutturata, che pure custodisce tutta la sua antica, dolente fragilità. Ma è con Signal To Noise che si toccano vette inarrivabili, e non a caso: la commistione band-orchestra nella versione in studio del 2002 era un felice presagio di SMB, annuncio che adesso, sul palco dell'Arena, diventa un'apoteosi di scansioni, esitazioni e convulsioni sonore, fra bagliori e cupezze di stampo mahleriano, che scavano nel profondo, dritto nell'anima. Il nitore cristallino della voce di Ane Brun riesce nel miracolo di scatenarci emozioni intense come quelle che ci procurava il leggendario Nusrat, pur se differenti per temperatura e colori. Peter e l'orchestra trasmettono potenti come non mai: noi riceviamo, sopraffatti dalla poesia. L'energia quasi bandistica di Downside Up serve a riconquistare leggerezza, che si scioglie nella dolcezza estenuata e febbrile di Mercy Street, ennesima istigazione ad una commozione disarmata. E poi, come se non bastasse (e non ci basta mai!), The Rhythm Of The Heat, con gli smarrimenti africani di Jung resi più neri mediante una ritmica dalla cadenza maligna e sardonica, una sorta di tarantella macabra che sfocia, all'atto della possessione dell'anima dipinta dall'acuto prolungato di Gabriel, in vertiginoso vortice orchestrale equivalente, quanto a pulsante drammaticità, alle terrificanti raffiche percussive della versione originale. E ancora: Blood Of Eden, che distilla il suo tepore, una sorprendente Intruder più subdola e felpata, la granitica compattezza di Red Rain, il rifugio nello standard pop-soul di Washing Of The Water, subito abbandonato per addentrarsi negli obliqui sperimentalismi di Darkness, fino all'immancabile chiusura di una smagliante Solsbury Hill, che questa volta, nel finale, vede tradursi letteralmente in partitura il suo costituire da sempre un Inno alla Gioia. I bis sono la prosecuzione della festa con altri brani: una spiazzante In Your Eyes che il geniale arrangiamento di John Metcalfe (salito a dirigere proprio in questo esaltante frangente) trasferisce, nello spazio e nel tempo, dall'assolata primordialità dell'Africa alle luminose, settecentesche gaiezze salisburghesi; l'abbraccio caloroso e solidale di Don't Give Up vivificato dalla vocalità algida ed incandescente della Brun; infine, il congedo solo musicale di The Nest That Sailed The Sky, con Peter a tessere leggeri ricami al piano, l'orchestra ad edificare un confortevole nido emotivo intrecciando tenui volute sonore, e noi tutti ad acquattarci in quella suadente morbidezza. È finito, questo sconvolgente, fantastico, irripetibile viaggio nell'Altrove: il ritorno sulla terra, nell'affollatissimo pianeta della musica qualsiasi, sarà doloroso. Ma, dentro, ci abiterà per sempre una bellezza assoluta.
da Dusk - Genesis Magazine, anno IV, n°12, 06/12/10 Tutti i diritti riservati
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