di Enzo Costa
"Un uomo, un delfino, un incontro oltre il vetro della vasca di un acquario e ai confini dell'anima"
Il delfino soffriva.
Se n'era accorto all'improvviso, scrutandolo a quattro metri di distanza, alle
spalle di una chiassosa scolaresca in gita estiva che punteggiava con gemiti di
esultante stupore le evoluzioni del cetaceo al di là del vetro. Per un po' il
vociare dei bambini lo aveva distratto, e disturbato: era venuto lì,
nell'acquario, dopo mezzogiorno, per starsene un po' da solo. Sapeva che di
solito a quell'ora l'acquario era deserto, i visitatori del mattino già usciti,
non ancora rimpiazzati da quelli pomeridiani. Avrebbe potuto radunare i suoi
pensieri, una specie di autoauscultazione dell'anima incoraggiata dal fresco
artificiale dell'ambiente e dal silenzio riposante degli abitatori delle
vasche. A inizio luglio, in piena stagione lavorativa, si era preso un giorno
per sé: anche un animatore turistico ha bisogno di distacco. Di un breve
intervallo alla sua scientifica organizzazione dell'allegria altrui.
Salutare sospensione guastata da quegli
scolari imprevisti. Dovevano essere lì, in quell'orario anomalo, e fuori tempo
massimo, ben oltre la fine dell’anno scolastico, per un preciso accordo con i
gestori: le due sottili maestre che li guidavano avevano confabulato per pochi
secondi con il vecchio biologo, e questi subito dopo si era allontanato
ricomparendo poi insieme a un ragazzo muscoloso fasciato in una muta nera da
subacqueo: era l'addestratore del delfino. Pronto a offrire lo spettacolo
concordato a quei piccoli spettatori. Si era calato in acqua dall'alto, e
subito aveva iniziato le danze con il suo partner pinnato. Fragoroso, l'incanto
dei bimbi: il delfino si muoveva sinuoso, rispondeva con straordinaria
prontezza ai comandi mimati dell'addestratore, ne imitava alla perfezione gli
spostamenti, le accelerazioni, i rallentamenti. Sempre, anche nel frantumare a colpi di coda le bolle che lui
stesso aveva prodotto, sorrideva pacifico. Quell'espressione di ilare
mansuetudine così umana, così intelleggibile, per di più associata a esercizi
terribilmente complicati: ecco il segreto del successo del delfino presso
grandi e piccini. Un animale dallo sguardo di bambino divertito che divertiva
scolari e maestre con numeri impossibili. La spiegazione banale che lui stesso
si era dato, mentre assisteva allo spettacolo infastidito dal frastuono
infantile.
Fino a quando il
delfino non si era avvicinato al vetro, disinteressandosi di colpo
dell'addestratore: appoggiato con grazia sfacciata il muso sul fondale di
sabbia sintetica, per qualche istante era rimasto immobile a fissare il suo
pubblico. Che aveva trattenuto il respiro per poi riesplodere di entusiasmo
quando l'animale con una fulminea piroetta era tornato ai suoi volteggi
acquatici.
A tutti, alunni e maestre, era
sfuggito il messaggio, ma non a lui: quella breve sosta era un'invocazione di
aiuto. Un grido muto e disperato. Il delfino là dentro soffriva. Forse si
sentiva prigioniero in quella bara vitrea violentemente illuminata, forse era
succubo del suo esigente addestratore, forse non sopportava più quel suo
destino terribile di simpatico giullare per estranei di ogni età. Quel suo
brusco fermare la danza voleva dire tutto questo. Una convinzione che si
rafforzò leggendo meglio i suoi occhi: non erano affatto gioiosi, ma
angosciati. Forzatamente allegri come quelli di un ostaggio costretto dai
rapitori a mostrarsi sereno nella foto da inviare ai parenti. E quel suo
sorriso costante aveva la fissità agghiacciata di un incubo senza fine. Il
delfino vittima innocente di un tragico equivoco somatico: la sua espressione
di assoluto sgomento scambiata per spensierata ilarità.
Non aveva dubbi su
quella scoperta. E sentiva che doveva fare qualcosa. Intanto la straziante
esibizione si era conclusa: l'addestratore era uscito gocciolante dalla vasca,
il biologo si era allontanato con la soddisfazione dipinta sulle rughe, e le
maestre avevano piegato con ordini secchi i piccoli recalcitranti allievi a
proseguire la visita: c'era ancora da vedere la vasca degli squali, e poi le
foche, e i pinguini, e le meduse, arrivate da due giorni appena.
La giovane turba
eccitata e schiamazzante svanì. Sostituita dal silenzio, prima desiderato e
adesso maledetto: urlava più forte che poteva "Venite! il delfino sta
male! dobbiamo aiutarlo!" ma quelle sue grida disperate precipitavano nel
vuoto. Avvertì solo allora il sommesso ronzio che scaturiva dagli impianti di
depurazione dell'acqua: pensò che la desolazione avesse quel suono. Si accostò
alla vasca, che da vicino gli sembrò immensa, e senza un valido motivo
incominciò a percuotere il cristallo con pugni sempre più convulsi e feroci.
Con morbide ondulazioni della coda il delfino si diresse verso di lui. Ora
erano uno di fronte all'altro. Aveva il volto schiacciato sul vetro, che a
quella distanza ravvicinata non era del tutto trasparente ma rifletteva
parzialmente le immagini, metà finestra metà specchio. Notò che la sua faccia e
il muso del delfino erano perfettamente sovrapponibili.
Riflessi di sguardi da La Repubblica-Il Lavoro, 08/09/2007 Tutti i diritti riservati |