Per me, ragazzino di fine anni ’70, lettore precoce di quotidiani, Fruttero e Lucentini erano un appuntamento fisso sulle pagine della Stampa. Non sapevo ancora che fossero intellettuali, che avessero pervicacemente contribuito all’egemonia culturale dell’Einaudi, che fuggissero dall’irrealtà del mondo rifugiandosi nella verità della fantascienza. Sapevo solo che mi aspettavano lì, fra le colonne del giornale torinese, per regalarmi intelligenza e sorrisi. Un provvidenziale presidio umoristico in mezzo a parole, slogan, fatti sempre più cupi e plumbei. I loro pezzi, così divertenti e scintillanti, mi erano terapeutici: mi facevano digerire, con robuste flebo di ironia, una società che col crescere della mia consapevolezza sentivo terribilmente pesante. Anche quando da lettore presi a frequentare i territori più aspri della satira politica, non potevo rinunciare a quell’integratore per il cervello che era il marchio F&L. Fatte le debite proporzioni umoristiche, mi capitava con i loro scritti ciò che mi succedeva con gli spettacoli di Vianello e della Mondaini: c’era il grande Dario Fo che fustigava il Potere (così come c’era Il Male, e poi Tango), ma perché sottrarsi al balsamo di una risata sui nostri tic, sulle nostre miserie, sull’ineluttabile prevalenza del cretino? Meraviglioso umorismo borghese, quello offerto da Fruttero e Lucentini: voce, cioè, di una borghesia civile e civica, capace di non attaccarsi alla (e di non attaccare la) politica perché munita di dignità propria, di una visione del mondo, di forza critica ed autocritica. E forse perché la politica, tutto sommato, era ancora presentabile. Quando poi provai a trasformare in scrittura le mie passioni di lettore, mi venne naturale chiedere consigli e giudizi ai miei “idoli” cartacei d’adolescenza. Mi rispose Fruttero, che – naturalmente – fu gentile, e sorprendentemente incoraggiante (e prodigiosamente apotropaico). Ed eccomi qua a ricordarlo con affetto. A ricordare che, mi pare tre anni fa, dalle colonne di Repubblica, Pietro Citati raccontò un suo colloquio con l’amico Fruttero il quale, dopo decenni di abbandono ai piaceri della letteratura e di rigoroso astensionismo espressivo sulle cose politiche, era sbottato, quasi gridando (lui, così ironicamente elegante, così acutamente distaccato) il suo schifo per come la politica si era ridotta. O forse per come si era ridotta la borghesia che di questa politica era (ed è) specchio. Ma anche a ricordare di aver letto, in un recente pezzo di Gramellini sulla Stampa, un pudico elogio di Fruttero al non ancora Premier Monti. Ecco: mi piace pensare che ci abbia lasciati con il sorriso lieve di chi, almeno, ha visto tornare al governo lo stile. l'Unità 17/01/12 Tutti i diritti riservati |