La parola di oggi è Daspo, nella sua accezione ergastolana, corredata cioè del suffisso “a vita”. Lanciata dal ministro Alfano, a margine annunciatamente punitivo delle imprese di Genny a’ Carogna in curva e omologhi più o meno armati fuori dello stadio, si è liberata dei limiti pallonari nella vulgata renziana riferita alla genìa più o meno umana dei politici corrotti, da espellere una volta per tutte dal consorzio civile. È un termine di sicuro impatto e appeal mediatico, anche in virtù del suo astuto solleticare il buttafuori che è in noi: chi non vorrebbe estromettere per sempre dalle feste natalizie l’insopportabile zia Matilde, o dai palinsesti notturni l’immarcescibile Gigi Marzullo? Al di là della necessità di un restyling, per questa versione extracalcistica, dell’acronimo originario (da “Divieto di accedere alle manifestazioni sportive” a “Divieto di accedere alla sedicente politica”), il vocabolo deve la propria efficacia al suo prefigurare un rimedio tranchant: politici corrotti? Fuori subito e definitivamente! I dettagli giuridici restano in ombra (“subito” in che senso? Alla prima intercettazione? Al verdetto di primo grado?), così come le modalità tecniche della procedura (chi sovrintende all’esecuzione del Daspo? Migliaia di addetti al controllo del non-accesso dei corrotti alla politica? E chi ci garantisce che gli addetti, a loro volta, non siano corrotti? Si impone un Daspo per i controllori traditori? E, in tale caso, come la mettiamo con l’acronimo?).