LEMMI LEMMI

 

(Dizionario semiserio)

 

 

Le parole d'agosto

 

 

di Enzo Costa

 

 

 

CENTRO

Che la già strombazzatissima parola centro, in un certo senso, sia divenuta periferica, mi pare cosa evidente, benché non centrale. Se, fino ad un secondo prima l’inizio dello spoglio delle politiche 2013, non c’era politologo più o meno patentato che non concionasse sulla caccia al voto di centro come must per conquistare la maggioranza, già dopo lo scrutinio di un paio di circoscrizioni (peraltro periferiche) tale regola scientifica veniva rottamata pur se, com’è tipico di queste lande, non insieme ai suoi alacri propugnatori. Il centro, di botto, si è polverizzato, unitamente al loden del professor Monti con relativo sobrio contenuto antropologico. L’agognato centro non c’entra(va) più con la politica italica, ora - come spiega(va)no in coro gli editorialisti di grido - doverosamente tesa ad ascoltare, o fomentare, grida, vaffa e opposti isterismi, nella versione 2.0 pentastellata, o in quella rustica munita di forcone. E però, la parola centro, in un altro senso, è di nuovo centrale, oggi, dentro una particolare espressione: “mettere al centro”. Esortazione che si porta tantissimo, specie se chiusa col complemento oggetto “il lavoro”. Sindacalisti di base e di altezza, imprenditori piccoli, medi e squinzi, oppositori esterni e interni non fanno che caldeggiare la messa al centro del lavoro. Che, malgrado tale esortazione di massa, resta negletto. Forse perché gli esortatori non specificano le modalità tecniche con cui compiere l’operazione. Le giudicheranno dettagli marginali.

Left 30/08/14

SELFIE

Al giorno d’oggi, chi è che non si fa un selfie? E chi è che non ironizza sulla mania di farsi i selfie? E chi è che non va a sbirciare i selfie degli altri? E chi è che non irride, o biasima, o deplora, o bolla i politici contemporanei per la loro tendenza vanesia al selfie contrapponendone l’esibizionismo finto-democratico alla buona, sana, ascetica riservatezza dei grandi politici di una volta? E chi è che non deroga a tale severa bocciatura degli egocentrici leader postmoderni in favore di un elogio più o meno esplicito alla semplicità comunicativa, alla freschezza espressiva ed alla disponibilità relazionale del Pontefice, così umile, spontaneo e diretto da non disdegnare questo e quel selfie con questo e quel passante più o meno devoto? La parolina alla moda, così come la pratica trendy che indica, contiene un mix di immediatezza e autosufficienza: basta che la pronunci o la scrivi e subito produce da sé un agile corredo semantico, un comodo bagaglio di derisioni condivise, una confortevole socializzazione del dissenso spiritoso. Chi dice “selfie” dice “danno autoironico”. E, spesso e volentieri, aggiunge una considerazione inoppugnabile: “Ma perché non si chiama più ‘autoscatto’ ”? Ah, saperlo! Ma, intanto, domandarselo fa scattare l’empatia da social network, l’intesa cinguettante, la fratellanza 2.0. Immagino che esistano, su Facebook, diversi gruppi no-selfie: uno avrà offerto la tessera onoraria al Papa.

Left 14/08/14

CRESCITA

Cresce cresce cresce la citazione-invocazione-evocazione della crescita. O forse il top dell’impennata si è registrato sotto Enrico Letta, che la parola la scandiva volentieri, mediante quella sua dizione asciutta che però, giunta al centro del vocabolo, nel gruppo consonantico “sc”, si increspava un po’, con un sussulto di gote che faceva pensare ad una qualche (illusoria) abbondanza da bocca piena. Ora, sarebbe facile scrivere qui che più si è nominata la crescita e meno l’economia è cresciuta. Ma forse più interessante è chiedersi se davvero, poi, si sia tanto parlato di crescita, e se non si tratti invece di un’illusione acustica generata dalla solita risonanza mediatica applicata alla politica postmoderna: un premier dice due-tre volte “crescita”, e cresce l’eco assordante di quella parolina innocente, propalata come un mantra da giornali e tivvù. Si può pure pensare che non ci siano più le parole epocali di una volta: l’ “austerità” di Berlinguer ci manca, vuoi per il senso morale di cui era intrisa, vuoi proprio per la parsimonia con cui il segretario del Pci la proferiva, salvandola così da ogni rischio di inflazione. Ma è esattamente questo, in realtà, il punto: oggi un Berlinguer che affermasse una tantum “austerità” si ritroverebbe suo malgrado quella parola preziosa in tutti i talkshow, in tutti i titoli, in tutti i tweet. Una sovrabbondanza capace di ucciderla. Nel 2014, ahinoi, la crescita del silenzio è più utopistica di quella del Pil.

 

Left 09/08/14

MANCA

Manca. Manca un piano industriale. Manca una politica industriale. Manca un’industria, una sola, una qualsiasi, una purchessia. Manca un piano energetico. Manca una politica energetica. Manca l’energia, prima o poi, tranne quella che serve a dire che manca. Manca un piano culturale. Manca una politica culturale. Manca la cultura, a furia di dire che la cultura non si mangia, e così adesso, con la crisi che c’è, molti non mangiano, a prescindere dalla cultura. Manca una cultura dell’alimentazione. Manca una cultura della progettazione. Manca una cultura della partecipazione. Manca una cultura della riconversione. Manca una cultura della decifrazione di cosa sono tutte queste culture che mancano. Manca una classe dirigente. Manca una classe politica. Manca una classe imprenditoriale. Manca una classe operaia, nel senso che in Italia si è quasi estinta. “Manca” è la forma verbale più presente nel discorso politico-mediatico: non manca mai, quando si tratta di additare assenze vere o pretese, carenze dannose o fantasiose, latitanze più o meno effettive; non manca mai, come espediente retorico con cui lasciar intendere che la soluzione al problema ci sarebbe, bell’e pronta, al più conseguibile in un mesetto, purché, appunto, si ovviasse a quella lacuna evidente che, ovviamente, è responsabilità altrui, mai propria, e che è questione semplice, mai complicata. Su come tecnicamente colmare la mancanza in oggetto, invece, quasi sempre la spiegazione manca.

  Left 02/08/14

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