IL PD CRESCE, MA L’EX TROMBATO MUSSO VINCE.
ECCO
COSA E’ DAVVERO SUCCESSO IN LIGURIA
“Ma che è
successo, lì in Liguria?”: lo chiedono in molti a me – scribacchino genovese –
convinti che l’impatto diretto con l’iceberg elettorale giovi all’analisi
dell’affondamento. E invece la domanda ricevuta fa solo rivivere il trauma,
sotto forma di domanda ri-posta a se stessi: ma che è successo, qui in Liguria?
E’ successo di tutto, anche il giorno delle elezioni: dal pomeriggio di lunedì
14 un’altalena tachicardica di risultati, una sorta di remake locale dello
psicodramma nazionale delle politiche 2006. Subito, proiezioni che delineavano
una discreta vittoria del Pd, poi – piano piano – un’erosione del vantaggio da
rodimento del fegato, intervallata da brevi squarci di sereno, fino ad
un’inesorabile rimonta conclusiva destrorsa. Lo stesso brutto film thriller
dato in Italia due anni prima, senza però nemmeno il rabberciato happy end di
allora. Questo, è successo in Liguria il 14 aprile. Ma un finale così
raccapricciante coronava una trama inquietante fin dalle prime scene: le
candidature, per esempio. All’inizio era la destra a palesare difficoltà ed
imbarazzi: soprattutto con una sua new entry, il giovane professor Enrico Musso,
candidato a sorpresa l’anno prima per le comunali contro la poi vittoriosa
Marta Vincenzi. Sconfitto di misura nella corsa a sindaco, Musso mordeva il
freno per presentarsi alle politiche, nell’indifferenza ostile dei berlusconidi
genovesi. Da qui le sue bizze stizzite, addirittura una sua mail privata
(opportunamente sfuggitagli di controllo e pervenuta ad un giornale) piena di
sboccato risentimento contro notabili locali ed un partito che preferiva a lui
le veline. Poi, di colpo, Scajola che decide di candidarlo capolista al Senato.
Risultato immediato: rimozione di furori e veleni, e via col quarantenne Musso
icona del nuovo azzurro che avanza. Mi ci soffermo per due motivi: uno, è
l’emblematicità della vicenda, tipica di una destra inarrivabile nel nascondere
guai e magagne, a colpi di lifting di immagine. Il secondo motivo è che la
parabola di Musso era stata ancora più clamorosa alle comunali 2007: reduce da
consulenze ed incarichi sui trasporti affidatigli da enti di centrosinistra,
per tutto il 2006 aveva firmato come commentatore genovese di un quotidiano
nazionale articoli ficcanti in cui sbeffeggiava il governo Berlusconi e la
finanza creativa di Tremonti, dipinto come un falsario contabile smascherato da
Bruxelles, per poi lodare (a governo Prodi insediato) la ruvida concretezza di
Di Pietro alle Infrastrutture e le audaci liberalizzazioni di Bersani,
osteggiate – a suo scrivere – da una destra di sedicenti liberisti. Finché,
ingaggiato dal Cavaliere per il Comune, riusciva in un attimo a cancellare la
sua vita precedente. Adesso, alle politiche, eccolo incarnare mediaticamente la
destra moderna e legata al territorio, come l’altro candidato doc: Sandro
Biasotti, Presidente della Regione dal 2000 al 2005. Già operatore portuale e
concessionario automobilistico, ribattezzato da chi scrive “teleGovernatore”,
vanesio uomo di comunicazioni di una destra incolta sul fatto ma capace di
spottanarsi efficacemente a suon di comparsate televisive (dai mille spot sul
fantomatico Terzo Valico ferroviario mai partito alle visite guidate come
cicerone mistico per chi “vedeva” il volto di Padre Pio nei drappeggi del
Cristo degli Abissi esposto in Regione). Di fronte a candidati Pdl così tipici,
come altri con le radici nelle province di ponente e levante, gli errori del
Pd: quello – per esempio – di non ricandidare un valentissimo senatore genovese
come Graziano Mazzarello (“reo” di troppe esperienze parlamentari), e di
paracadutare qui nomi nazionali, per quanto illustri e stimabili. Ora, si
poteva sopportare la qualifica di “invasori” per Giovanna Melandri e Stefano
Fassina (anche perché i candidati indigeni non mancavano, da Roberta Pinotti a
Mario Tullo passando per Sabina Rossa e Andrea Orlando): a patto, però, di
saper smontare l’immagine artificiale altrui. E invece, in diversi dibattiti
sulle tivù locali, ecco Fassina e la stessa Pinotti lasciarsi sottoporre ad un
severo test di liberalismo con annessa bocciatura da parte del succitato
professor Musso, senza che mai loro gli squadernassero la rassegna stampa delle
sue passate esecrazioni giornalistiche contro Berlusconi, Tremonti and friends.
Tragiche coazioni a ripetere errori di comunicazione. E allora eccoli, i
risultati finali: il Pdl più una Lega rediviva che sopravanzano di poco il Pd
più Italia dei Valori anche nella battaglia campale del Senato. Tutto così
chiaro e lineare? Non proprio: a Genova, malgrado un porto nella tempesta
giudiziaria, un accordo di programma sull’acciaio che scricchiola e disagi
sociali su cui il Pdl pascola e la Lega specula (e la Sinistra Arcobaleno
svanisce), il Partito Democratico sfiora il 45%, migliorando notevolmente
rispetto alle già vittoriose comunali. A La Spezia cresce anche (malgrado la
collocazione troppo bassa nelle liste dell’autorevole sottosegretario
Forcieri), e perfino ad Imperia, feudo del vincente ma non trionfante Scajola,
recupera. E’ Savona che alla fine segna la triste differenza: in città il Pd
aumenta del 2,5; ma la provincia registra una decisiva rivincita della destra.
Forse perché nel capoluogo si era tenuto l’unico comizio ligure di Berlusconi:
quello in cui, oltre ad aver garantito che l’attaccante Borriello sarebbe
rimasto al Genoa benché di proprietà del Milan, aveva attaccato i giudici
proponendo di sottoporli ad un test psichiatrico. Se è servito per vincere,
oltre che intristirsi occorrerebbe chiedersi cosa c’entra con la lettura facile
di una destra fortificata da candidature più legate al territorio. E – alla
fine della narrazione del trauma – non resta e non mi resta che una domanda: ma
allora, che è successo in Liguria?
I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse
da L'Unità, 19 Aprile 2008
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