Un
classico natalizio dell’era geologica che va dalla mia infanzia a tre
anni fa, erano le festose luminarie che (dis)arredavano vie ed insegne
cittadine. Bagliori più o meno intermittenti, così come le annesse
riserve pauperistiche (“che spreco!”, “spendessero meglio i soldi!”,
“il vero Natale è un’altra cosa!”) che si accendevano un Natale sì e
sette-otto no, rifulgendo particolarmente a seguito di un’improvvisa
crisi petrolifera o a corredo di una sofferta austerity berlingueriana.
Un classico natalizio 2008-2009-2010 era ed è la graduale diminuzione di
luminarie sparpagliate per vie ed insegne cittadine, causata dal
profilarsi, dal deflagrare e dall’incanaglirsi di una spaventosa crisi
economica. Semi-blackout costellato da annesse riserve consumistiche
(“che tristezza!”, “non potevano spendere qualcosina in più?” “il vero
Natale è un’altra cosa!”). Ma nella Festività di quest’anno, accanto
alla per me sopportabilissima tendenza alla penuria di luminescenza
artificiale, brilla (si fa per dire) una sorta di compulsione molesta
per il buio culturale: come e più delle luci, si spegne la cultura, si
smorzano gli spettacoli, si oscura la conoscenza. Debitamente spacciati
per gadget voluttuari, ammennicoli superflui, sfizi rinunciabili quanto
superneon e mega-addobbi natalizi. “La cultura non si mangia!” ha
proclamato il ministro recordman in debito pubblico del governo del Capo
della tv che ci rimpinza di schifezze svuotandoci l’anima, mentre
pianificava contabilmente tagli selvaggi al Sapere ed all’Arte
(“tagliare la cultura”, lo ha detto Benigni, è espressione che contiene
in sé il senso lugubre e sinistro di uno sfregio teppistico). E invece
lo spirito ha fame: fame di intelligenza, di emozioni, di
consapevolezza, di bellezza.
Spegnere la cultura vuol dire spegnere le menti delle persone, cosa
conveniente per chi sgoverna. Ecco: quanti, con coraggio ed ostinazione,
si battono per impedirlo, sono forse la luce più intensa di questo
Natale.
Enzo Costa