Sarebbe inesatto se scrivessi che sabato pomeriggio, all’Auditorium del
Galata Museo del Mare, si è parlato dell’emigrazione di ieri e di oggi,
prendendo spunto dalla bellissima mostra sulla “Merica”, mai abbastanza
celebrata. E’ vero che quello era il tema dell’incontro, sul quale si
sono sviluppati i vari interventi. Ma quanto e più dell’argomento, è
valsa – a definirlo con precisione – l’intensità con cui è stato
affrontato, la partecipe profondità che lo innervava. L’emigrazione,
dunque, del passato e del presente, quella d’inizio Novecento dei
nostri nonni verso il Nuovo Mondo e quella del terzo millennio di
moltissime etnie verso il Vecchio Continente, non solo raccontata, ma
mostrata, documentata, fatta vivere e rivivere attivando memoria,
emozioni e ragionamenti. Questo è stato, per esempio, lo straordinario
intervento del direttore del Muma Campodonico: un chiaro, semplice,
argomentato, colto invito a ricordare, a capire, a confrontare, a
riflettere: le facce dei nostri emigranti, le loro storie di miseria e
di ostinata speranza, l’accoglienza ostile riservatagli dalla nostra
città da dove si imbarcavano, i drammi e le tragedie delle loro
traversate, ci parlavano di noi, di cosa siamo stati, e ci parlavano
degli altri, di chi – oggi – arriva qui patendo identici disagi,
fuggendo da analoghe disperazioni, trovando avversità ed incomprensioni
simili. Evocazioni ed informazioni, annotazioni e suggestioni:
l’emigrazione come dolorosa condizione di vita che attraversa i secoli
e le latitudini, i popoli e le epoche, che produce sradicamenti e
spaesamenti in quanti la praticano, e tensioni e rimozioni in chi ora è
nella fortunata condizione di essere dall’altra parte, di “subirla”.
Ascoltando la splendida relazione del professor Campodonico, vibrante
di una verità potentissima perché immune da ogni retorica, mi veniva da
pensare alle parole oscene dei molti che oggi fanno politica e vincono
le elezioni solleticando la paura degli italiani per gli stranieri, gli
immigrati, i “clandestini”: quelle parole oscene non offendono soltanto
chi arriva da fuori, ma anche noi, la nostra storia, il dolore di
intere generazioni costrette un secolo fa a lasciare questo paese.
Vedevo, l’altro giorno al telegiornale, un inenarrabile La Russa
respingere la proposta di Epifani di sospendere la legge Bossi-Fini
(che prevede il rimpatrio per gli extracomunitari che perdono il
lavoro) con questa frase ghignante: “No, perché se sospendessimo la
legge, inizierebbe un tamtam tra molti stranieri che direbbero ‘Uei,
ragazzi, possiamo partire!’ “: “Uei, ragazzi”: un linguaggio da movida,
da giovani sfaccendati che si radunano per andare in discoteca, messo
in bocca a disperati che fuggono da povertà, fame e guerra, rischiando
la vita in cerca di una qualche sopravvivenza. Osceno, La Russa, quasi
blasfemo, davanti alle parole lette, sabato all’Auditorium del Galata,
da due giovani immigrati dall’Africa, un ragazzo ed una ragazza, che
raccontavano i terribili viaggi della speranza e della disperazione di
altri immigrati. Ma c’era anche dell’altro, sabato: oltre alle
considerazioni importanti e non demagogiche espresse da una politica
degna di questo nome (quelle della sindaco Vincenzi e dell’assessore
regionale Vesco), oltre agli esempi portati dal giudice del lavoro
Haupt con l’agenda sui migranti di Magistratura Democratica, da Anna
Maria Guglielmino dell’Associazione Muse con le sue iniziative
didattico-artistiche e dal professor Bagnasco della Scuola Massignon
per l’insegnamento dell’italiano agli immigrati, oltre alle narrazioni
emblematiche di Nicla Buonasorte ed al coordinamento puntuale di Maria
Paola Profumo, c’era il ragionare pacato di un esponente della Comunità
di Sant’Egidio, Sergio Casali, e di uno studente liceale, di cui
purtroppo ricordo solo il nome: Simone. Raccontavano con disarmante
naturalezza il loro impegno quotidiano per l’integrazione, le loro
attività volte all’inserimento (non solo) scolastico dei ragazzi venuti
da fuori: persino i toni civili e pudichi dei loro racconti dicevano,
ad una platea multietnica conquistata ed anche confortata, che Genova è
anche questo, che l’Italia non è solo quella dei La Russa e dei
Borghezio. Anche da noi, come è successo negli Stati Uniti, si può
fare. Anzi, si sta già facendo. Frammenti di speranza ad Ellis Island |