GABRIEL,
L’UOMO CHE ORCHESTRA LE EMOZIONI
Il nuovo album di Peter Gabriel, Scratch My Back, è un capolavoro assoluto. Incredibile. Ineguagliabile. Anche in virtù della sua ambiguità unica, della sua singolarissima doppiezza: non è totalmente un disco di Gabriel (non contiene suoi pezzi, essendo una raccolta di cover) ed è fra i più gabrieliani dei suoi lavori (per coraggio, radicalità, vocalità); volge lo sguardo ad un passato più o meno recente (nella scelta dei brani) al solo fine di farci scorgere meglio il futuro (nella trasfigurazione visionaria di ogni canzone); è duplice, di più: molteplice, anche perché intriso di classicità rivoluzionaria, perché trasuda sperimentalismo romantico, perché pulsa di una sommessa inquietudine, perché segnato da una maturità febbrile. Un accostamento ardito ma sensato da fare è con il memorabile Peter Gabriel 3 del 1980: album, quello, dirompente e sconvolgente come questo. E come questo costruito partendo, come per un Lars Von Trier dei suoni, da dogmi autoimposti: là, un’avveniristica poetica di tribalismo elettronico scolpita dal battito potente di batterie sistematicamente spogliate dei piatti; qui, un paesaggio sonoro di scosse e bradisismi emotivi per sola orchestra e pianoforte, con la rigorosa assenza, oltre che della sezione ritmica, di chitarre, sequencer e campionamenti. La stimolante costrizione di archi e fiati in esclusiva al posto di quella offerta, trent’anni fa, da sintetizzatori e percussioni primitive: la scommessa è la stessa, giacché in questo caso – va detto a scanso di equivoci – siamo lontani anni luce (nel senso di sideralmente più avanti) dall’espediente à la page della rockstar stagionata che occulta la crisi di ispirazione con furbe orchestrazioni standard, comodamente sontuose, di vecchi successi. Gabriel fa tutt’altro, fa l’opposto: con l’ausilio preziosissimo degli arrangiamenti di John Metcalfe, usa poco gli archi come soffici tappeti stesi sotto le melodie e molto come trame sonore nervose e nevrotiche, che si fanno e si disfano, avvolgono e comprimono, supportano la voce e poi la contrastano fino quasi a soffocarla, disegnano l’armonia e un istante dopo la disintegrano per ricostituirsi in ritmo. Nulla di scontato, nulla di prevedibile, echi di musica colta (Reich, Pärt, Stravinskij) mai ostentati perché al servizio della forma canzone nelle sue accezioni più nobilmente difformi. E poi la voce, quella voce, prodigiosamente intensa, profonda, commovente anche nelle stanchezze che denuncia. Come se la rinuncia alla composizione avesse indotto l’Arcangelo a creare con l’interpretazione: ogni tonalità, ogni registro, ogni strofa, ogni sillaba dipingono un mondo interiore, scuotono e suggestionano, distribuiscono brividi. Ogni canzone è un’occasione di meraviglia: su tutti, il vitalismo frenetico di The Boy In The Bubble di Paul Simon magicamente rivoltato in un incanto rallentato e trasognato; una Listening Wind fedele all’originale dei Talking Heads, ma paradossalmente resa più ritmica dall’incalzare iterativo dei violini; una versione angosciata e potente di My Body Is A Cage degli Arcade Fire; la già fantastica Après Moi di Regina Spektor arricchita di un’intensità gotica inaudita; una straziatissima Street Spirit (Fade Out) dei Radiohead. E i momenti più teneri e intimi (Mirrorball, Flume, The Power Of The Heart, The Book Of Love) riescono a cullare senza quasi mai rassicurare. A proposito di duplicità, un capolavoro sorprendente e annunciato (do you remember la meravigliosa orchestrazione di Signal To Noise in Up?). Del resto, Peter l’ha sempre detto: aspettatevi l’inaspettato.
l'Unità 14/02/10 Tutti i diritti riservati |