Già una che si chiama Maria Elisabetta Alberti Casellati parrebbe avere, in senso onomastico, un’attitudine al rispetto ingessato di forme e norme: nome e cognome elegantemente compositi, da nobiltà mai decaduta, che evocano tutto fuorché un’identità anarco-insurrezionalista, un’indole borderline, una propensione alla vita spericolata. Al contrario, si direbbero il segno anagrafico di una natura benpensante, di una vocazione all’etichetta, di una vita pettinata. E difatti nell’osservare Maria Elisabetta Alberti Casellati, sottosegretario alla Giustizia, si resta colpiti dalla sua pettinatura disciplinatissima da coiffeur pre-68, morbidamente rigorosa, vaporosamente ferrea, che fa pendant con tratti, posture e movenze da signora bene d’altri tempi, se non d’alti lignaggi. E, per questo, sulle prime ti viene da immaginare che, come vice-Guardasigilli, abbia la delega al Galateo, al limite alla Recriminazione (ma senza parolacce, per carità!) per la Sparizione della Buona Educazione di Una Volta (con le maiuscole a conferire la debita pomposità al tutto). Fino a quando, come è successo a me il 20 settembre, non la vedi impegnata, in questo caso come ospite di Otto e mezzo su La 7, nella difesa a oltranza del premier. E dire oltranza è dire poco, così come dire difesa è dire sbagliato. La sua era un’offensiva oratorio-cacofonica senza quartiere: frasi, slogan, suoni onomatopeici sparati a macchinetta con il massimo del fragore possibile, scagliati a raffica sulla voce della conduttrice Lilli Gruber e del giornalista Lirio Abbate dell’Espresso, a coprirne le domande, a ignorarne i rilievi, a soffocarne sonoramente le obiezioni. Ora, è vero che tutti i berlusconidi sono addestrati allo stalking da microfono, all’interruzione molesta, all’imbrattamento dell’audio a scopo occultamento dei fatti (meglio, dei misfatti del capo). Ma, vedere una signora così fisiognomicamente (oltre che onomasticamente) per bene dedicarsi a questo lavoraccio sporco per coprire i traffici dell’utilizzatore finale, un po’ di effetto lo faceva. Specie nell’udire la sua vocina suadente da proprietaria chic di boutique caricarsi di sgraziate coloriture gasparriane. Ma, ancora di più, scioccava un passaggio del suo rumorismo pro-papi: quando la Gruber le chiedeva se fosse normale che un presidente del Consiglio, per i suoi disinvolti colloqui al cellulare, utilizzasse schede panamensi, lei berciava a tormentone: «Ma perché, è un reato? Ma perché, è un reato? Ma perché, è un reato?». Un sottosegretario alla Giustizia, con nome e aspetto evocanti Legge e Ordine, che inneggia scompostamente all’hackeraggio telefonico eludi-magistrati. L’inimmaginabile è al potere. l'Unità 27/09/11 Tutti i diritti riservati |