Il nuovo “cioè”, la versione del terzo millennio di “nella misura in cui”, la variante postpostmoderna del postmoderno “un attimino” è “e quant’altro”. Espressione inespressiva che si porta molto a fine frase, specialmente (ma, ahimè, non solo) in conclusione di un elenco. In origine, era un’alternativa “ggiovane”, meno stantia, a “eccetera,” e ancor di più all’iterativo, polverosissimo “eccetera eccetera”. E lo è tuttora: quando si reputano numericamente sufficienti gli oggetti, i soggetti, gli elementi, i sentimenti elencati, li si sigilla con quella locuzione prestampata: “e quant’altro”. Che, in effetti, suona scattante, risolutiva e pure un po’ allusiva, con quell’ultima parolina, “altro”, che dice e non dice, quasi ammiccante, come a suggerire “ci siamo capiti, non è il caso di specificare oltre”, e con quella parolina che la precede, “quant’ ”, che, a dispetto di tanti, insistenti inneggiamenti alla qualità, punta tutto sulla quantità, per quanto insopportabilmente indeterminata. E qui (per impiegare una locuzione a dir poco decrepita) casca l’asino: già, perché la reazione allergica che mi provoca la suddetta espressione è una domanda pignola: “Ma quanto, esattamente?”. Per quale bizzarro motivo, se esiste un “altro” che non volete indicare in modo dettagliato, ma che introducete con quel vocabolo specifico, non mi specificate almeno la quantità precisa che tale vocabolo, semanticamente, evoca? Cosa nasconde questa vostra compiaciuta reticenza? Millantate per caso quantità inesistenti, come le cifre esagerate dei manifestanti ridimensionate dalla questura, quantità talmente improbabili che, per scongiurare smentite imbarazzanti, preferite rimanere sul vago? E fosse solo questo, il problema! Ben più grave, per la mia sensibilità (malata?), è la degenerazione nell’uso del ritrovato lessicale: sempre più spesso, “e quant’altro” non si limita a fungere da fiocco standard per liste assortite. Fa molto di peggio: spunta di continuo in fondo a qualsiasi frase, subito attaccato a soggetto, predicato e complemento, piazzato lì a vanvera, buttato là a casaccio. Ho sentito affermare: “Sono stanco e quant’altro”. Mi è toccato leggere: “La giornata era calda e quant’altro”. È un modo per dire senza dire, rinunciando a cercare aggettivi, omettendo dettagli, evitando sfumature. Ci si rifugia con indecente pigrizia in quella formuletta alla moda, fintamente raffinata, spia inquietante di una lingua massificata e rattrappita. Ogni volta che la ascolto o la trovo scritta, mi sento sconfortato, avvilito, addolorato, preoccupato e quant’altro.
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