di Enzo Costa
“Spero che l’Italia non diventi come Roma” (Silvio Berlusconi, sabato 3
novembre 2007). Credo che questa dichiarazione abbia dato il "la" subliminale
all'ondata di xenofobia amministrativa ora dilagante nel nordest. L'aveva
rilasciata il capo dell’opposizione nei giorni successivi al terribile delitto
di Tor di Quinto. E oggi, vista l'ariaccia che tira, vale la pena ritornare su
quella sortita: dopo aver espresso il suo dolore per la morte atroce della
signora Reggiani, cordoglio formulato all’uscita dal Bagaglino ove aveva
raccontato barzellette ospite dello show di Pino Insegno, il Cavaliere si era
recato a Verona (nordest, per l'appunto), ospite di un convegno organizzato da
Carlo Giovanardi and friends. E qui, per l’appunto, aveva proferito le parole
suddette, frutto - immagino - della risposta alla seguente domanda posta a se
stesso: come capitalizzare al meglio una vicenda del genere? Come sfruttare al
massimo uno straziante episodio di cronaca nera avvenuto nella Capitale? Con la
frase uscitagli di bocca, nient’affatto casuale o dettata da un’emozione
improvvisa: il sindaco di Roma, va ricordato, era (ed è) l’avversario più
pericoloso del Cavaliere. Era reduce da primarie trionfali per lui, oltre che
per il Partito Democratico. I sondaggi da tempo, e negli ultimi giorni ancora
di più, lo davano ai vertici dell’apprezzamento, nettamente sopra a tutti, a
sinistra come a destra. Eccola, allora, la capitalizzazione migliore del
fattaccio romano: una frasetta perfetta. Questa: “Spero che l’Italia non
diventi come Roma”. Perfetta, giacché non si limita a dipingere un paesaggio
urbano contemporaneo, debitamente apocalittico (“Roma è un disastro”). Ma lo
proietta con astuzia nel futuro, ampliandolo geograficamente (“C’è il rischio
che tra qualche tempo tutto il Paese sia come la Capitale”). Con otto parole,
centrati due bersagli: l’attuale primo cittadino di Roma e il futuro candidato
del centrosinistra alle elezioni. Che “casualmente” sono la stessa persona. Con
cinica efficacia comunicazionale, davanti alla spaventosa morte di una donna
inerme (morte vissuta ed elaborata in modo straordinariamente civile dal marito
della vittima, capace di dire parole profonde e toccanti per dignità e
nobiltà), il leader del principale partito del centrodestra, probabile prossimo
candidato alla guida del Paese, in quel di Verona, ospite graditissimo di
politici sedicenti cristiani, sceglie di far passare questo concetto: occhio,
se voterete Veltroni, imbelle accoglitore (se non complice) di rom assassini,
tutta l’Italia gronderà degrado e sangue innocente. Concetto in grado di
penetrare le menti più semplici, o quelle (e sono molte) appositamente
preparate dall’apposito martellamento mediatico in genere, e catodico in
particolare, appositamente orchestrato da giornali e televisioni posseduti,
controllati o sintonizzati con l’abilissimo dichiarante veronese. Il quale, per
una minoritaria platea più sofisticata, sforna pure l’alibi astuto della
legittima difesa: dice e dirà che fino ad allora (sottinteso, da Cavaliere di
nome e di fatto quale è) aveva taciuto. Ma che di fronte alle inaudite accuse
del centrosinistra, che gli addebitava responsabilità di ex governante sull’
"invasione" rumena, non si era più trattenuto. Già, aveva taciuto. In
suo luogo, fino all’esternazione di Verona, ad attaccare, accusare, denigrare,
esecrare, bollare Veltroni, Prodi, il governo, la maggioranza, la sinistra
radicale, il buonismo pacifista e via infamando, ci avevano pensato i suoi
alleati-sottoposti in coro. Gianfranco Fini aveva marciato con telecamere al
seguito su Tor di Quinto. Pierferdinando Casini aveva scoperto sgomento -
dietro microfoni, taccuini e riflettori - l’orrore dei campi rom romani. I
leghisti tutti avevano strepitato da leghisti. Il Cavaliere, sulle prime, aveva
taciuto. Quel coro assordante bastava e avanzava. Poi, alle repliche
argomentate di Rutelli, Veltroni e Prodi, che si limitavano a rimarcare il
sostegno incondizionato del governo Berlusconi e del ministro degli Esteri Fini
all’ingresso della Romania in Europa (Silvio all’epoca se ne vantò, plaudendo
simpaticamente al probabile arrivo in Italia di legioni di ex comunisti
avvelenati contro quel sistema totalitario), non aveva più potuto tacere.
Scegliendo la città di Romeo e Giulietta come location della sua furbissima
dichiarazione sull’Italia a rischio di veltronizzazione. Naturalmente, ci sarebbe da parlare con dati, fatti, argomenti. Ci sarebbe
- per esempio - da ricordare, come ha fatto Mario Pirani lunedì 12 novembre su
Repubblica, che il comune di Roma “ha realizzato negli ultimi tempi lo
spostamento di 15000 persone da insediamenti degradati a strutture abitabili ed
ha messo in piedi un campo attrezzato per migliaia di rom che grava sulle casse
comunali per 12 milioni di euro, compreso il servizio di pullman per
accompagnare e riportare da scuola i bambini”. Ci sarebbe - anche - da
rammentare che il comune di Milano, guidato dalla Moratti e prima da Albertini,
patisce identici se non peggiori disagi dovuti all’immigrazione, non solo
rumena e dei rom. Ci sarebbe - di conseguenza - da rimarcare che nessuno,
tantomeno un aspirante premier dell’Unione, si è mai sognato di pronunciare
parole invereconde quali “Spero che l’Italia non diventi come Milano”, per
colpire ad un tempo l’attuale sindaco Letizia Moratti e il non improbabile
futuro candidato premier Letizia Moratti, cogliendo cinicamente al volo l’occasione
di una donna rom assassinata nella sua baracca abusiva, o - prima ancora - i
gravi disordini scoppiati tra polizia municipale e comunità cinese. Ma il punto focale - anche alla luce del "nuovo" Cavaliere
disponibile (in quest'istante) al dialogo - è un altro: quelle tristissime
parole veronesi, propedeutiche al lugubre "manifesto" di Cittadella,
se non ai deliri nazistoidi di Treviso. La loro formidabile e ripugnante
efficacia. L’impressionante vuoto civile e morale di cui sono specchio. Niente di nuovo sotto il sole (che sorge libero e giocondo)
da L'Unità, 7 dicembre 2007
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