"Non temo Berlusconi ma il Berlusconi che è in me": si porta tantissimo, ora che il Silvio esterno ci appare un po' meno eterno, questa vecchia massima gaberiana sul Silvio interno a noi, fomentante i nostri bassi istinti. Parafrasando (ma neppure troppo) il buon vecchio Gobetti, potremmo dire "berlusconismo come autobiografia della Nazione", e dicendolo avremmo molti motivi per sentirci dalla parte della ragione, oltre che perspicaci: parafrasando il buon vecchio Giorgio, "far finta di essere savi". Così consapevoli e avveduti nell'autoanalisi da rifuggire da una lettura personalistica ed autoassolutoria della tragicommedia italica: "Sbaglia chi pensa che, sparito dalla scena Papi, spariranno i nostri guai essendone Lui il solo responsabile". E via filosofeggiando sull'atavicità del nostro non-senso dello Stato, sul carattere genetico della nostra scarsa etica civile: il Cavaliere come spia e non origine del disastro, come sintomo eclatante e non causa scatenante della malattia italiana. Tutto vero. Ma proprio tutto giusto? Non c'è, nel fenomeno Berlusconi, un tratto di unicità, antropologica, culturale, mediatica, che ne informerà anche la caduta? Certo (meglio ancora, ovvio): Silvio ha lisciato il pelo ai nostri antichi vizi. Ma lo ha fatto in modo abnorme: li ha sdoganati, legittimati, enfatizzati. Prima con la tv, poi anche con azione e linguaggio politici. Producendo senso e consenso per modelli di vita e disvalori già presenti o latenti nel dna nazionale, ma alimentati e santificati quotidianamente con parole, opere e immagini del Capo. Ecco: siamo proprio sicuri che quando verrà a mancare questa sistematica incarnazione del peggior Carattere italiota, quando non potremo più indirizzare ogni giorno lo sguardo verso l'ammaliante Specchio deformante di Arcore, non cambierà nulla? Davvero la sparizione del Cattivo Esempio Imbellettato ci lascerà indifferenti, persi nel nostro incurabile berlusconismo inerziale? Io credo di no: quando si rompe uno specchio che lusinga la nostra vanità (leggi "incoraggia la nostra arci-italianità"), subito si ha un trauma. Non ci si ritrova. Poi, per forza di cose, si prova a farne a meno, imparando a guardare dentro a noi stessi, a conoscerci più a fondo, e magari a vedere e tirare fuori quei tratti nascosti, meno seducenti ma più importanti e preziosi, che lo specchio lusingante non ci mostrava. In fondo, fatte le debite (o indebite) proporzioni, subito dopo l'uscita di scena di colui che per un Ventennio incarnò l'autobiografia della Nazione, gli abitanti di quella Nazione seppero dare il meglio di se stessi. l'Unità 07/08/10 Tutti i diritti riservati |