No, dico, ma lo sapete che è colpa dell’Unità? Meglio ancora: lo sapete che è colpa di quella particolare, perversa, masochistica forma di libertà giornalistica chiamata satira, di cui è stata ed è tuttora affetta l’Unità, se io ora sono qui a scrivere queste righe? Ora, lo so che lo sapete che l’Unità di colpe ne ha tante, così come quelli che la leggono e che magari, come diceva un fu Cavaliere e come significativamente ripete un Guru in carica, sono così poco arguti (adoro gli eufemismi) da votare per un certo partito, ma forse di questa colpa ad personam, oggettivamente grave, non sapevate nulla.
E allora, già che sono in piena confessione, voglio raccontarla tutta, senza alibi, senza attenuanti: è colpa dell’Unità, della sua pericolosa propensione alla satira, e soprattutto dell’incosciente coraggio di Sergio Staino se da ventisei anni riempio di parole scritte, più o meno consapevoli, le colonne di diversi fogli giornalistici. Già, perché tutto è iniziato con la mia passione tardo-adolescenziale per l’umorismo satirico: avevo poco più di vent’anni quando, da lettore accanito, non mi perdevo un numero dell’irresistibile, ineguagliabile, inarrivabile Tango. E avevo poco meno di ventiquattro anni quando, nell’aprile del 1988, squillò il mio telefono fisso (non essendoci ancora sul mercato i cellulari) e sentii, all’altro capo del filo, l’inconfondibile bofonchiare tosco- italiano del papà di Bobo, all’epoca direttore dell’inserto satirico più amato e odiato della penisola, direttore che, se stavo decifrando bene fra un mancamento e l’altro, mi annunciava l’intenzione di pubblicare gli scritti che avevo temerariamente inviato alla redazione.
Dunque irresistibile e ineguagliabile sì, Tango: ma non più inarrivabile! Ci ero finito dentro, non dico a mia insaputa (mai avuto ambizioni ministeriali), ma a mia “insperata”: chi l’avrebbe detto? I miei pezzi satirici, i miei raccontini surreali, visti da Staino e stampati, in mezzo ai testi delle grandi firme, ai Serra, ai Gino & Michele e via graffiando a parole, attorniati dalle migliori vignette dell’universo cartaceo, partorite dalle geniali matite di Ellekappa, del direttore e via sbeffeggiando per immagini. Mi ripresi dallo choc solo qualche mese dopo, giusto in tempo per apprendere della chiusura di Tango dovuta, anche, ad un’esperienza cinematografica del direttore, che esordì nella regia con “Cavalli si nasce”. Ma quello fu, per me, l’inizio di tutto: la satira come palestra di scrittura, come legittima difesa in forma umoristica davanti alle offese di certa politica, alla stupidità di certi connazionali, alla durezza del mondo. Non ero più solo un utente sentimentale di quel linguaggio tenero e micidiale: potevo parlarlo anch’io, provare ad elaborarlo, trovare uno stile.
Se devo scegliere un’unica parola per quell’epoca, per quel giornale, per quel mirabolante Tango, scelgo libertà. La sensazione era proprio quella, fortissima, di un’assoluta libertà creativa, che arrivava anche a me, piccolo, inesperto, remoto collaboratore genovese mai di stanza in redazione. La satira, quella satira, era straordinariamente libera, per le strade ancora inesplorate da percorrere, per le forme, le lingue, le tecniche da adottare, e per i contenuti che, come dimostrò la storia di Nattango, era possibile proporre, forti della pellaccia dura del direttore e, anche, grazie alla lungimirante sopportazione praticata dal giornale-madre. È allora che l’ho capito: la satira, quella satira, esisteva perché c’era una sinistra, già di per sé incline all’autocritica, in grado anche di criticarsi allegramente. E c’era un giornale, come l’Unità, pronto ad accogliere quella salutare propensione. Tango e in seguito Cuore furono, per me, anche un ponte verso l’Unità, verso il giornalismo, in un primo momento (almeno nelle intenzioni) sempre brillante e corrosivo, poi, talvolta, pure più riflessivo, e verso i libri. Eccola, la colpa di Tango e dell’Unità: come potrei non essergliene grato?