di Enzo Costa
Ma quella volta lì era di pomeriggio, la pancia di Giorgetto stava benissimo, e Giorgetto stava giocando in giardino in quel bizzarro caldo inverno che conduceva al Natale. Da quando con mamma e papà aveva lasciato l’arredatissima prigione in centro, dove era recluso condannato a ore e ore di playstation, per trasferirsi in un affollato condominio di periferia, aveva scoperto che la libertà esisteva: si trovava sottocasa, in formato giardino da esplorare. E dire che come giardino non era un granché: piccolo anche per un bambino piccolo come Giorgetto, qualche fiore pallido con pochi petali smunti, troppa erba lunga che sembrava una foresta dei puffi. Nessuno ci metteva le mani, in quel giardino, a parte Giorgetto, che le mani ce le metteva eccome: scavava certe buche che neanche le talpe a Quark. E tirava fuori di tutto: cento lire decrepite, carte di caramelle di un’altra era geologica, cicche di sigarette fumate da irriducibili disertori dal salutismo, bucce di banane geneticamente mortificate, cartoline con saluti da Cesenatico, tutta roba portata dal vento o piovuta dai balconi.
Ma quella volta lì le piccole mani di Giorgetto trovarono una cosa strana. Viscida e fredda. Una cosa che sì, si muoveva: col cuore in gola Giorgetto la tirò su. Soffiò via la terra e con grande sorpresa vide un animaletto mai visto: spugnoso, a forma di turacciolo rosicchiato, con in più una specie di corazza da tartaruga che però era molle come il budino, sei zampette verdi pelose, una coda gialla spelacchiata e una testa beige affusolata con due occhi, uno chiuso e uno aperto, quest'ultimo non proprio attraente, con una pupilla fissa e inespressiva. Dalla bocca, che ospitava generosamente tre denti cariati e una lingua piena di vescichette bluastre, usciva a intermittenza un unico suono stridulo: "zut zut".
Che strano animaletto. Non si capiva neppure a quale specie appartenesse: forse un insetto anormale, o meglio meticcio. Forse un anfibio irregolare (per così dire clandestino). O forse un incrocio malriuscito delle due cose. Su un fatto però Giorgetto non aveva dubbi: era un animaletto schifoso. Che non faceva paura o tenerezza ma soltanto ribrezzo. E che non era feroce o intelligente ma soltanto terribilmente noioso: Giorgetto gli tirò la coda e lui fece "zut zut". Si sforzò di accarezzarlo e lui fece "zut zut". Lo gettò in una pozzanghera e lui, galleggiando a fatica, fece "zut zut". Lo lanciò per aria e lui, ricaduto a terra, fece "zut zut".
"Che bestia inutile!" pensò Giorgetto "che ci sta a fare al mondo?”. Seguì un’idea risolutiva: “Io gli do fuoco!". Col piglio dei suoi giorni migliori (quelli senza mal di pancia veri o da scuolabus in arrivo), tirò fuori dalla tasca un fiammifero che aveva trovato il giorno prima scavando in giardino: lo accese, e lo accostò alla corazza molle dell'animaletto. Che infastidito dal calore fissò Giorgetto con l'unico occhio disponibile.
Sarà stato per un caso, o forse proprio perché mancava poco al Natale, ma fu a quel punto che all’improvviso Giorgetto capì. Capì che non era giusto bruciare gli animaletti, per quanto diversi, brutti o inutili apparissero. A convincerlo a spegnere il fiammifero, fu soprattutto una cosa: lo strano verso che quella innocua bestiola aveva fatto mentre lo fissava con l’unico occhio disponibile.
Un verso che a Giorgetto era sembrato tenerissimo: "zut zut".
L'Unità 31/12/2006 Tutti i diritti riservati |
INDICE:
101) L'imperatore del cantiere
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